Le abilità di apprendimento svelano la patologia cerebrovascolare
subclinica
DIANE RICHMOND
NOTE
E NOTIZIE - Anno XIII – 06 giugno 2015.
Testi pubblicati sul sito
www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind
& Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a
fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta
settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in
corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di
studio dei soci componenti lo staff dei
recensori della Commissione Scientifica
della Società.
[Tipologia del testo: RECENSIONE]
È una consolidata stima neurologica la riduzione della capacità di apprendimento con il progressivo sviluppo di forme di patologia cerebrovascolare clinicamente inapparenti, tuttavia la massima parte degli studi che ha indagato l’encefalo mediante procedure basate su metodiche di risonanza magnetica strutturale e funzionale e riferimenti a specifici markers di malattia cerebrovascolare, ha svolto misure specifiche per la memoria, trascurando quasi sempre i processi attivi ed attuali che ne consentono la formazione.
Glazer e numerosi colleghi si sono prefissi lo scopo di un’analisi accurata del rapporto esistente fra patologia cerebrovascolare subclinica, volumi di regioni, aree e formazioni dell’encefalo rilevanti per le funzioni cognitive, ed apprendimento verbale. Lo studio è stato condotto su un campione proveniente dal Northern Manhattan Study, che affida la significatività dei rilievi, oltre che al numero, alla presenza al suo interno di differenti varietà biotipologiche (cosiddette razze) e diverse etnie di appartenenza.
Il rapporto
fra l’iperintensità della sostanza
bianca, quale indice di malattia cerebrovascolare subclinica, e l’apprendimento verbale è risultato
evidente e significativo (Glazer H., et al., Subclinical cerebrovascular
disease inversely associates with learning ability: The NOMAS. Neurology – Epub ahead of print
May 22. pii:10.1212/WNL.0000000000001657, 2015).
La provenienza degli autori dello
studio è la seguente: Evelyn McKnight Brain Institute, Departments of Neurology
and Public Health Sciences, Leonard M. Miller School of Medicine, and The
Neuroscience Program, University of Miami, Florida (USA); Department of
Neurology, Hokuriku National Hospital (Giappone); Department of Neurology and
Department of Epidemiology, Columbia University, New York, NY (USA); Department
of Neurology and Center for Neuroscience, University of California at Davis,
Sacramento (USA).
In numerose occasioni di aggiornamento e didattiche abbiamo ripercorso la storia degli studi sulla neurobiologia della memoria, spesso soffermandoci sui meccanismi molecolari che i ricercatori del laboratorio di Eric Kandel più di altri hanno contribuito a delucidare, e in quelle occasioni abbiamo ricordato le tappe principali della ricerca sulle basi neurali dell’apprendimento. Rinviando ai resoconti di quegli incontri e a quanto riportato in altre note di recensione per una sintesi esaustiva, qui si ricordano solo alcune tappe concettuali, che possono aiutare il lettore non specialista ad avere presente la distinzione neuroscientifica, alquanto diversa dalla concezione di matrice psicopedagogica prevalente nella cultura generale italiana.
Per apprendimento, fin dagli albori della neurobiologia, si è inteso il processo che, mediante modificazioni strutturali e funzionali, porta all’acquisizione di una nuova capacità di elaborare o rispondere a stimoli interni ed esterni, condizioni o circostanze ambientali. Il primo ad ipotizzare che la formazione e la conservazione di nuove tracce di esperienza richiedesse la modificazione fisica di singole unità di segnalazione (sinapsi), si ritiene sia stato lo stesso Ramon y Cajal, anche se vi sono motivi fondati per ritenere che tale assunto fosse largamente diffuso presso la comunità neuroscientifica ante litteram dell’epoca. La svolta si ebbe nel 1949, quando il neurofisiologo e neuropsicologo canadese Donald Hebb ipotizzò che all’origine dell’apprendimento vi sia una coincidenza di attività neurale: quando due cellule nervose connesse fra loro sono simultaneamente attive, la forza delle loro connessioni sinaptiche si accresce, conferendo una base per la persistenza della memoria. Ricordiamo le 49 parole scritte Hebb nel lontano 1949 nella celebre opera The organization of behavior[1] che fondano il principio, oggi insegnato con il nome di Regola dell’Apprendimento di Hebb (Hebb’s Learning Rule):
When an axon of cell A is near enough to excite a cell
B and repeatedly or persistently takes part in firing it, some growth process
or metabolic change takes place in one or both cells such that A’s efficiency,
as one of the cells firing B, is increased.
Anche se negli anni sono stati corretti alcuni dettagli di questa formulazione, rimane la sostanza della regola di Hebb: il processo di apprendimento richiede la coincidenza o simultaneità di scarica fra neuroni interconnessi.
Negli anni Settanta, Timothy Bliss e Terji Lømo scoprirono nell’ippocampo di conigli anestetizzati la comparsa, dopo un treno di stimoli ad alta frequenza, di un’attività sinaptica rinforzata perdurante per ore, in vitro, e per settimane o giorni, in vivo: il potenziamento a lungo termine o LTP (long-term potentiation). Nei decenni successivi si accertò che questa base cellulare dell’apprendimento, oltre che nei sistemi dell’ippocampo inclusa la via CA3-CA1 collaterale di Schaffer, si registra in molte regioni dell’encefalo, fra cui la neocorteccia, l’amigdala, lo striato e il cervelletto. La descrizione di forme distinte di LTP e l’approfondimento delle basi del fenomeno sono coincise con gli studi sui recettori del glutammato NMDA. Una considerevole mole di studi ha consentito di decifrare l’apparato molecolare sottostante l’espressione di LTP in fase precoce e fase tardiva. Poi, sono state accertate altre forme di plasticità sinaptica, quali LTD (long-term depression) e LTP indipendente dai recettori NMDA. L’importanza della subunità NR2B nell’accrescere la rilevazione di coincidenza hebbiana[2] è stata definitivamente provata una quindicina di anni fa, con la creazione di Doogie, lo smart mouse che, ingegnerizzato per esprimere solo nel cervello il gene di NR2B, ha mostrato di poter ritenere per tre giorni quanto un topo a genotipo naturale ricordava per un giorno solo.
Fatta questa premessa di “neuroscienze di base”, torniamo allo studio clinico che sarà pubblicato sulla rivista Neurology ed è ora disponibile nella bozza elettronica che precede la stampa.
Gli autori hanno selezionato fra i partecipanti al Northern Manhattan Study un campione costituito da persone prive di evidenze cliniche di ictus in corso o pregressi: il numero, che conferisce notevole significatività allo studio, è di 1272 volontari. L’età era compresa fra i 61 e i 79 anni e i sessi erano rappresentati in proporzioni non eccessivamente differenti (61% donne, 39% uomini).
Tutti i partecipanti sono stati sottoposti a test cognitivi e a studio mediante risonanza magnetica nucleare. Con tale metodica è stato definito per ciascuno il volume cerebrale totale (TCV, da total cerebral volume) e il volume della sostanza bianca che presenta iperintensità di segnale (WMHV, da white matter hyperintensity volume), ovvero il reperto MRI che depone per patologia cerebrovascolare subclinica. Le misure sono state effettuate mediante segmentazione semiautomatizzata.
Lo studio dell’apprendimento verbale dei volontari è stato rapportato alle immagini mediante regressione lineare generalizzata e modelli misti.
I partecipanti con una maggiore WMHV e minore TCV ricordavano in totale un minor numero di parole in un compito di apprendimento di una lista di vocaboli. La presenza di infarto cerebrale subclinico (SBI, subclinical brain infarction) non era associata in alcun modo con il totale delle parole apprese. I volontari con una più grande WMHV presentavano un incremento di odds in una curva di apprendimento più piatta.
Dopo aver escluso coloro che presentavano SBI, l’associazione fra le parole apprese in totale e il reperto WMHV rimaneva molto significativa. Tutte le misure sono state sottoposte a normalizzazione per età, grado di istruzione, parametri relativi alla provenienza etnica/costituzione biotipologica e presenza di SBI, oltre che rapportate allo status relativo al tipo di assicurazione sanitaria.
Dall’insieme dei dati analitici di osservazione si desume che le iperintensità della sostanza bianca, contrassegno di patologia dei piccoli vasi dell’encefalo, possono avere un impatto sulla curva di apprendimento.
La significatività dei risultati di questo studio, oltre a confermare che la patologia dei piccoli vasi scoperta con la MRI condiziona l’apprendimento di nuove informazioni, suggerisce che la valutazione di prestazione all’apprendimento verbale sia incorporata nelle misure neuropsicologiche dei difetti cognitivi di origine vascolare.
L’autrice della nota ringrazia la
dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla
lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE
E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
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